È quasi un’ora che cammino e non sono ancora arrivata, l’aria fredda mescolata allo smog di Milano mi fa lacrimare. Sono stanca, avrei fatto meglio a prendere la metro. Ho bisogno di un caffè, mi infilo in una grande libreria.
Dentro fa caldo, anzi caldissimo.
Come una vampa, solo che questa è d’origine artificiale perché il riscaldamento è esagerato.
Il bar è in fondo al salone. Avanzo piano, tolgo il piumino, metto i guanti nella borsa, controllo le notifiche sul cellulare e intanto lancio un’occhiata distratta ai titoli messi in evidenza dagli editori che si sono accaparrati una posizione di primo piano.
«Quanto pesa? Quanto è spesso? No, grazie. È troppo grosso.» Un uomo sui cinquanta restituisce un volume dalla copertina scura al commesso che lo rimette a posto senza battere ciglio né obiettare. Mi fermo a origliare e fingo di sfogliare un grosso tomo, autore straniero, genere romantico, almeno così mi pare. Scopro che fa parte di una serie che è già arrivata al quinto volume. Certo ci vuole costanza. Io non ho mai prodotto alcuna serie fino ad ora e non so se ne avrò l’occasione. Ogni storia che scrivo è unica, originale e irripetibile, di solito una vita di quelle che stenti a credere che siano vere, invece è proprio così. Intanto il commesso, un ragazzotto dall’aria indifferente e che pare qui per caso, ha borbottato qualcosa al lettore che ama i libri magri.
«No, è che non riesco più a concentrarmi» risponde quello. «La storia deve durare poco, risolversi in poche sere. Altrimenti io mi dimentico cosa racconta il libro tra una volta e l’altra che lo prendo in mano.» Ride un po’ imbarazzato, ma neanche tanto.
Lo guardo, ha le spalle curve, una mano è chiusa sullo smartphone e indossa l’auricolare. È uno di quelli sempre connessi, sempre aggiornati e sul pezzo e magari ha anche un’opinione su tutto. Al contrario di me. Ha un solo limite, non riesce a leggere libri di troppo spessore.
E qui mi spunta un sorriso.
Cattivo.
D’improvviso mi ricordo che sono entrata in libreria per bere un caffè.